Intervista a Chiara Amaltea Ciarelli, costumista

CHI E’ CHIARA AMALTEA CIARELLI ?

Costumista italo-olandese, si forma a Bologna e debutta giovanissima firmando costumi per teatro, danza e opera. Tra i suoi lavori spicca Il cappello di paglia di Firenze, andato in scena al Teatro alla Scala nel 2024. Collabora con registi internazionali nei principali teatri europei, unendo estetica e narrazione visiva.

 

CHIARA AMALTEA CIARELLI  RISPONDE ALLE DOMANDE PER ARCHIVIO ATTIVO AVANSCENA

 

Qual è la domanda che guida la tua ricerca artistica in questo momento?

In questo momento, la domanda che mi guida è: come può il costume diventare drammaturgia?

Mi interessa che racconti un prima, un durante e un dopo del personaggio. Che non sia un semplice

“vestito”, ma una vera parabola narrativa: visiva, materica, emotiva.

Ogni dettaglio – dalla scarpa al cappello – non deve essere lì per caso, ma essere parte di un

discorso coerente e sensibile, a supporto della regia, dell’interprete e del pubblico.

Hai incontrato una soglia, un limite o un dubbio che ha cambiato il tuo

percorso?

I limiti si incontrano in ogni progetto – ed è proprio questo che li rende vivi.

Ho imparato che non sono ostacoli, ma leve creative: mi spingono a ridurre, inventare, stratificare,

trovare soluzioni che altrimenti non avrei immaginato.

Ogni limite è anche un’occasione di crescita, personale e artistica.

Quali sono i linguaggi — artistici o non — che nutrono il tuo processo?

Il mio processo è nutrito da molte fonti, anche molto diverse tra loro.

Amo osservare come si vestono le persone nella vita reale: sedermi in un bar e guardare il passaggio

della gente è spesso un esercizio prezioso.

Ma l’ispirazione arriva anche da un libro, da una descrizione narrativa, da una musica, o da un

quadro – magari da una pennellata che mi suggerisce un trucco, una texture, un’ombra.

L’arte in senso ampio, e la vita reale, si intrecciano costantemente.

C’è un’immagine, un gesto, una parola che è diventata chiave nella tua pratica?

Una parola chiave per me è condivisione: con la regia, con le maestranze che realizzano i costumi,

con l’interprete che li indossa e infine con il pubblico.

Il teatro è un lavoro di gruppo, sempre. Ed è nel confronto che le idee si trasformano, si

arricchiscono, prendono forma viva.

Per il pubblico di Avanscena: cosa suggerisci per accostarsi alla tua opera con

apertura e profondità?

Non credo ci sia un modo “giusto” per accostarsi al mio lavoro, ma credo molto nella condivisione

di sguardi e impressioni dopo lo spettacolo.

Mi piace ascoltare i feedback – del pubblico, delle maestranze, degli artisti – perché è lì che si crea

uno spazio di crescita autentica.

Forse il modo più profondo è proprio questo: non smettere di guardare e di restituire.

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